Il mito della crescita di occupazione nel sud Italia 2024. Boom edilizio e un sistema debole mascherato da trionfo

Il Sud Italia celebra il suo 49,1% di tasso di occupazione nel terzo trimestre 2024, eppure questa percentuale, che altrove segnerebbe un fallimento, diventa pretesto per rivendicare successi. La retorica istituzionale si nutre di numeri e proclami, ma dietro le cifre c’è una realtà ben più complessa e desolante: un’economia meridionale dipendente dallo Stato, fragile e incapace di camminare con le proprie gambe.

Il peso insostenibile dello Stato imprenditore

L’illusione di crescita al Sud poggia su due fondamenta precarie: il boom dell’edilizia, gonfiato dagli incentivi statali come il Superbonus e il PNRR, e il settore pubblico, che con il 22% degli occupati totali domina la scena. Non si tratta di sviluppo, ma di un ciclo che si ripete da decenni: fondi pubblici che inondano il mercato per un periodo limitato, creando occupazione temporanea senza incidere strutturalmente sul tessuto economico.

Il confronto con il Nord è illuminante. Il 62,4% di occupazione settentrionale racconta una storia diversa: una manifattura competitiva, innovazione tecnologica, esportazioni. Mentre al Nord la politica crea le condizioni per lo sviluppo, al Sud lo Stato diventa datore di lavoro diretto o indirettamente, con un sistema in cui la mediazione politica vale più di ogni innovazione.

Edilizia: il simbolo di un’economia drogata

L’attuale boom edilizio è il volto più visibile di questa dinamica. I cantieri aperti grazie agli incentivi rappresentano posti di lavoro, ma di quale tipo? Contratti temporanei e bassa specializzazione, una bolla che si sgonfierà quando i fondi si esauriranno. Chiamarlo “miracolo” occupazionale è una finzione statistica, utile per alimentare una narrazione che poco ha a che fare con la realtà.

Il Sud, ostaggio del passato

Se il Nord guarda al futuro con settori avanzati e internazionalizzati, il Sud resta fermo al passato. L’agricoltura e il turismo continuano a essere gestiti con logiche arretrate, mentre l’imprenditoria meridionale si è specializzata più nell’intercettare fondi pubblici che nel competere sul mercato. Il risultato è una regione che dipende dallo Stato non come motore di sviluppo, ma come ancora di salvezza perpetua.

Cosa serve davvero al Sud

Il Mezzogiorno non ha bisogno di un’altra iniezione di denaro pubblico, né di piani straordinari che finiscono per alimentare un sistema parassitario. Serve una rivoluzione culturale che ricostruisca il rapporto tra pubblico e privato, riducendo la dipendenza da fondi statali e favorendo la crescita autonoma. Serve una classe dirigente coraggiosa, disposta a sacrificare il consenso immediato per riforme strutturali capaci di generare un’economia dinamica e competitiva.

Eppure, questa prospettiva appare lontana. La politica meridionale si regge su un sistema che premia la distribuzione di risorse pubbliche, e cambiare le regole del gioco significherebbe minare il proprio potere.

La realtà dietro le celebrazioni

Mentre si celebra il 49,1%, il Sud rimane ostaggio di un modello che perpetua la sua debolezza. I numeri non bastano per raccontare la verità: dietro l’aumento dell’occupazione c’è un sistema economico malato, dove la dipendenza dallo Stato non è un errore da correggere, ma una scelta consapevole, un modello di business consolidato.

E così, il “Sud che riparte” resta una narrazione di facciata. Il vero sviluppo richiede coraggio, innovazione e un cambiamento radicale. Fino a quel momento, ogni celebrazione sarà solo un altro capitolo di una storia che si ripete, un’illusione che serve più a nascondere i problemi che a risolverli.

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